Nuovi dati a supporto dell’utilizzo del farmaco olaparib per pazienti con varianti patogeniche di Brca i geni ‘Jolie’ e tumore al pancreas metastatico arrivano da uno studio ‘real life’ condotto su oltre 20 centri d’Italia, Paese in cui però il farmaco non è attualmente rimborsabile, per effetto di una decisione dell’agenzia del farmaco Aifa a suo tempo molto dibattuta. L’analisi che riaccende i riflettori sul tema è pubblicata sulla rivista ‘Cancer Medicine’ e fotografa l’impatto nel mondo reale dell’utilizzo di olaparib in questa sottocategoria di pazienti. Nel dettaglio sono stati raccolti dati clinico/patologici di pazienti con cancro al pancreas da 23 reparti di oncologia della Penisola, da Nord a Sud. Su un totale di 114 pazienti, 53 avevano ricevuto olaparib per la malattia metastatica. Ciò che è stato osservato è che la sopravvivenza globale era “significativamente più lunga” nei pazienti esposti a olaparib in qualsiasi contesto/linea di trattamento. Tanto che gli autori nelle conclusioni evidenziano che i dati presentati “supportano l’uso” del farmaco per la malattia metastatica nei pazienti con carcinoma pancreatico Brca mutato.
“E’ uno studio real world puntualizza all’Adnkronos Salute Michele Reni, professore associato all’università Vita-Salute San Raffaele e direttore Oncologia medica dell’Irccs ospedale San Raffaele di Milano, ultimo autore del lavoro prende nota di quello che succede nella pratica clinica e ovviamente non può avere il peso di uno studio di fase 3 come era lo studio Polo”, il riferimento su questo fronte. “Però offre uno spaccato di ciò che succede in realtà e ci dice che, in questa specifica popolazione di pazienti, chi ha ricevuto olaparib ha vissuto più a lungo rispetto a chi non l’ha ricevuto. Un dato interessante che un messaggio dovrebbe darlo, nonostante uno studio randomizzato valga sempre di più”. L’indicazione che arriva può far riflettere sull’opportunità di rimettere in discussione ciò che Aifa ha deciso? “Io auspicherei di sì, ovviamente risponde Reni Spesso noi medici ci troviamo nell’imbarazzo di dire ai pazienti che lo studio c’è e che” il farmaco “sarebbe utile, però un prezzo di 4mila euro e più al mese non è sostenibile, pochissimi hanno le possibilità economiche, e si introduce di fatto un’ingiustizia sociale”, riflette.
Lo studio, spiega Michele Milella, prima firma e corresponding author, professore ordinario di Oncologia all’Università di Verona e direttore dell’Unità complessa di Oncologia dell’azienda ospedaliera di Verona, “raccoglie i dati di pazienti con predisposizione ereditaria basata su mutazioni di Brca1 e 2 a livello germinale (un sottogruppo piccolo, ma importante) che sono riusciti a fare il trattamento con olaparib fuori dal trial Polo. E’ importante, perché i risultati che si ottengono nella pratica clinica corrente sono sempre un po’ diversi rispetto a quelli negli studi clinici. Per cui il fatto che la potenziale efficacia di olaparib sia stata poi verificata in un contesto di trattamento nel mondo reale aggiunge un dato importante su quello che questo farmaco può fare. Mentre raccoglievamo i dati, però, è successo che la rimborsabilità del farmaco non è stata approvata dall’Aifa. Il costo dunque qui da noi, dove non c’è un sistema assicurativo capillare, come nei Paesi anglosassoni, diventa proibitivo per il singolo paziente”.
Lo studio “conferma che i pazienti” con tumore del pancreas metastatico “che hanno una mutazione di Brca e ricevono olaparib hanno la possibilità di avere un vantaggio. Non tutti evidentemente precisa Milella Ma per i pazienti in cui il farmaco è efficace si modifica proprio la storia naturale della malattia, hanno una prospettiva di sopravvivenza più alta. Ora si sta cercando di capire se si possano utilizzare anche degli altri biomarcatori che dicano esattamente chi risponderà ed è ovviamente molto importante per portare il farmaco a chi ne può trarre davvero beneficio. Ma tutto ciò non preclude, a mio avviso, il fatto di dare la possibilità di avere accesso al farmaco, sia perché il rischio in termini di effetti collaterali è molto limitato e sia perché il rischio economico per il sistema sanitario nazionale è relativamente limitato, in quanto l’assenza di una risposta la capiamo nei primi 2 o 3 mesi. Se la scelta, quindi, è non darlo a nessuno, da clinico propendo per darlo a tutti in questa sottopopolazione di pazienti”.
Anche per Milella andrebbe “rivalutata la questione della rimborsabilità. Ed è utile continuare a raccogliere ulteriori informazioni, dando nel contempo la possibilità ai pazienti di ricevere il farmaco, mentre studiamo come utilizzarlo al meglio”. Una strada che gli esperti intendono percorrere. Mentre sul fronte regolatorio va capito se c’è un margine perché la questione si riapra. L’Italia praticamente è l’unico Paese dove il farmaco non è stato approvato per questa categoria di pazienti.
Di questo gruppo, non numeroso, “una persona su 3 ha un beneficio prolungato dell’ordine di 3 anni o più illustra Reni che in questa malattia è un miracolo”. Riferendosi ai nuovi dati raccolti, l’esperto sottolinea che, “se vogliamo, l’esito non era neanche inatteso, perché nello studio Polo la differenza di sopravvivenza dei pazienti non era stata dimostrata statisticamente significativa anche perché un terzo delle persone randomizzate a ricevere il placebo in realtà nella loro vita avevano ricevuto olaparib, per cui questo ha diluito la differenza che altrimenti avrebbe potuto esserci”. Altro aspetto riguarda la qualità di vita: “Queste persone ricorda Reni non fanno la chemio per il periodo in cui ricevono l’olaparib. Penso che chiunque abbia esperienza di un amico, un parente o un conoscente che l’ha fatta e abbia ben chiaro cosa significa non fare il trattamento chemioterapico e ricevere semplicemente delle pastiglie per bocca”.
Al di là del farmaco, aggiunge Milella, “è molto importante ribadire il fatto che è fondamentale testare i pazienti per la presenza delle mutazioni. Sapere che esiste una mutazione germinale di Brca è fondamentale, perché ci sono altri farmaci che possiamo utilizzare, come derivati del platino, e che funzionano molto meglio nei pazienti che sono portatori di questa mutazione”. Non solo: “Non fare il test aggiunge Reni va a discapito anche dei familiari, perché il test positivo comporta la possibilità di fare la ricerca della variante patogenica anche su di loro e quindi poi di inserirli in programmi di screening per tumore al seno, prostata, ovaio. Si potrebbero dunque salvare più vite”.
In generale, conferma anche Milella, “rispetto a tutti i pazienti con tumore del pancreas in Italia, sono sopra il 6-8% quelli che hanno la predisposizione ereditaria, ma in circa 4 su 10 di questi non c’è una storia familiare. Sono pazienti che non sapevano di avere la predisposizione e identificarla consente di testare il resto della famiglia e fare una prevenzione sugli altri tumori che più frequentemente sono associati alle mutazioni del Brca. Quindi il test sarebbe comunque fondamentale, anche se non ci fosse il farmaco, perché ci consente di fare una prevenzione sui familiari che non si sono ancora ammalati”. Il tumore al pancreas, conclude Reni, è una malattia che “colpisce un po’ tutti gli strati sociali e culturali, colpisce nel mondo dello sport, della politica, dello spettacolo, dell’economia. E’ una malattia che fa paura e penso che non si possano negare ai pazienti vantaggi anche piccoli che una persona può avere con un trattamento o con l’altro, vantaggi che poi per alcuni possono proprio cambiare la vita”. (di Lucia Scopelliti)