(Adnkronos) Il conflitto in Medio Oriente ha un costo umano considerevole ma anche un costo economico notevole per Israele che con l’inizio delle operazioni di terra in Libano e l’attacco dell’Iran di ieri rischia di essere ancora più alto. La forchetta attuale si aggirerebbe tra i 67 miliardi di dollari stimati dalla banca centrale israeliana e i 120 miliardi di dollari (circa il 20% del pil israeliano) stimati dall’economista israeliano Yacov Sheinin.
Ad agosto, infatti, la banca centrale israeliana aveva stimato il costo del conflitto per Israele tra il 2023 e il 2025 in 67 miliardi di dollari (di cui 32 miliardi per le sole spese militari), pari a quasi il 13% del pil del paese, al quale si aggiungeva 10 miliardi di dollari per finanziare il trasferimento dei circa 100 mila israeliani che hanno dovuto lasciare le loro abitazioni nelle vicinanze della Striscia di Gaza o del confine con Libano dopo che erano stati presi di mira dai razzi di Hamas e dell’Hezbollah. La riparazione dei danni causati da queste azioni veniva stimata ad agosto in 6 miliardi di dollari.
E’ particolarmente alto il costo della difesa del territorio. Israele con l’Iron Dome, che è stato schierato per la prima volta nel 2011 e con la ‘Fionda di Davide’ e con i missili Arrow riesce ad intercettare circa il 90% dei razzi. Ma a quale prezzo? Si stima che ogni missile dell’Iron Dome costi circa 50 mila dollari (ogni batteria dislocata su tutto il territorio comprende tre o quattro lanciatori che contengono 20 missili). I missili del sistema missilistico detto ‘Fionda di Davide’ che è stato progettato per abbattere missili balistici a corto, medio e lungo raggio a bassa quota costano circa 1 milione di dollari l’uno. Poi ci sono anche i missili Arrow il cui costo, secondo un ex consulente finanziario del capo di stato maggiore dell’Idf , è intorno ai 3,5 milioni di dollari l’uno.
L’economia israeliana, quindi, è una delle vittime collaterali del conflitto scoppiato dopo l’attacco del 7 ottobre di Hamas. Migliaia di aziende israeliane, infatti, si sono ritrovate in difficoltà anche a causa del fatto che i riservisti hanno dovuto imbracciare le armi. Circa 287.000 israeliani, riferisce il ‘Washington Post’, sono stati infatti chiamati a prestare servizio dopo il 7 ottobre, un numero particolarmente importante in un paese di meno di 10 milioni di abitanti. A questi lavoratori prestati all’esercito si aggiungono i circa 85 mila lavoratori palestinesi che operavano soprattutto nel settore dell’edilizia che sono praticamente scomparsi, poiché non sono stati autorizzati a lavorare in Israele a causa di problemi legati alla sicurezza e ai lavoratori stranieri che hanno lasciato il Paese.
CofaceBdi, a luglio, ha stimato che 46 mila aziende israeliane hanno chiuso a causa del conflitto in corso e ha previsto che entro la fine dell’anno il loro numero potrebbe salire fino a 60 mila (nel 2020 con il Covid circa 76 mila imprese erano state costrette a chiudere mentre in un anno normale il numero di imprese costrette a chiudere si aggira intorno a 40 mila). “Non c’è un settore dell’economia che sia immune dalle ripercussioni della guerra in corso”, aveva spiegato al ‘Times of Israel’ il Ceo di CofaceBdi, Yoel Amir. A soffrire di più sono comunque le imprese che operano nei settori dell’edilizia, dell’agricoltura, del turismo, dell’ospitalità e dell’intrattenimento. “Le imprese stanno affrontando una realtà molto complessa: la paura di un’escalation della guerra, unita all’incertezza su quando finiranno i combattimenti, insieme a continue sfide come la carenza di personale, la bassa domanda, le crescenti esigenze di finanziamento, l’aumento dei costi di approvvigionamento e dei problemi logistici e, più recentemente, il divieto di esportazione da parte della Turchia, stanno rendendo sempre più difficile per le imprese israeliane sopravvivere a questo periodo”.
Con il conflitto in corso il turismo in Israele è crollato di oltre il 75%, ha affermato l’Ufficio di statistica israeliano a giugno e molti negozi hanno chiuso nelle vie solitamente trafficate della Città Vecchia di Gerusalemme. “L’economia è in serio pericolo a meno che il governo non si svegli”, ha affermato nei giorni scorsi Dan Ben-David, che dirige la Shoresh Institution for Socioeconomic Research al ‘Washington Post’. “In questo momento sono completamente disconnessi da tutto ciò che non è guerra… e non si vede la fine”. L’economia “dovrebbe essere una delle cose che spinge Israele a volere che la guerra finisca prima piuttosto che dopo”, aggiunge Ben-David.
Le ripercussioni si fanno sentire anche sui dati della crescita. S&P (che ieri ha annunciato un taglio al rating di Israele portandolo da ‘A+’ a ‘A’ a causa dell’aumento dei rischi geopolitici in seguito all’inasprimento del conflitto con l’Hezbollah libanese), ha rivisto al ribasso la sua stima del pil: nel 2024 la variazione dovrebbe essere nulla (contro +0,5% stimato in precedenza) mentre nel 2025 dovrebbe tornare a crescere del 2,2% (contro +5% stimato in precedenza). Per Moody’s, che venerdì scorso ha abbassato il rating da ‘A2’ a ‘Baa1’, il pil dovrebbe crescere quest’anno dello 0,5% e dell’1,5% l’anno prossimo (contro il 4% stimato in precedenza).
S&P sostiene che “maggiori minacce alla sicurezza smorzeranno la fiducia di consumatori e investitori, mentre i settori del turismo, dell’edilizia e dell’agricoltura resteranno quelli più colpiti”. Un “un’operazione di terra più ampia in Libano che richiederà la chiamata di riservisti potrebbe anche limitare la ripresa economica nel breve termine”. Sulla stessa linea anche Moody’s che sottolinea come “la probabile estensione del servizio militare per gli uomini a 36 mesi dagli attuali 32 mesi” peserà sulla disponibilità in manodopera e “rimuovendo una delle parti più produttive della società per un periodo più lungo di quanto non accada attualmente”. Inoltre, osserva l’agenzia di stampa internazionale, “i lavoratori palestinesi continuano a non essere in grado di lavorare in Israele. E questo è particolarmente rilevante nel settore edile; prima della guerra, i lavoratori palestinesi (inclusi quelli di Gaza) rappresentavano circa il 30% di quelli occupati del settore, che rappresenta oltre il 5% del pil”. E nonostante gli sforzi del governo israeliano per portare lavoratori stranieri in Israele, “è probabile che persista una carenza materiale di manodopera”.
Per quanto riguarda i conti pubblici S&P stima che con l’aumento delle spese militari il rapporto deficit/Pil nel 2024 dovrebbe salire al 9% prima di scendere al 6% nel 2025 (mentre Moody’s stima un deficit/pil a circa il 7,5% quest’anno data la minore crescita del pil e la spesa aggiuntiva per i riservisti e gli sfollati dal Nord). Per Moody’s “il rapporto debito/pil dovrebbe salire intorno al 70%, rispetto alla nostra previsione di una riduzione verso il 50% prima del 7 ottobre”.
Anche sul fronte degli investimenti la situazione non è rosea. Per Moody’s, infatti, “è probabile che gli investimenti restino più contenuti per un periodo più lungo a causa del rischio di fare affari in Israele dal punto di vista della sicurezza”. Gli investimenti attualmente sono inferiori di oltre 16 punti percentuali in termini reali rispetto al periodo precedente al 7 ottobre 2023. Per quanto riguarda le prospettive S&P ritiene che comunque grazie ad “un’economia altamente adattabile e diversificata” Israele “storicamente ha goduto di forti tassi di crescita e si è ripreso rapidamente dalla precedente crisi”. (Di Emmanuel Cazale)