La legge 194 sull’aborto, 46 anni tra le polemiche

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La legge 194 sull’accesso all’aborto volontario, che oggi compie 46 anni, pur riconoscendo il diritto alla vita dell’embrione e del feto, tutela, non senza polemiche sin dalla sua entrata in vigore, il diritto della donna alla salute fisica o psichica, qualora questa sia messa a rischio dalla prosecuzione della gravidanza, dal parto o dalla maternità. Ecco, in sintesi, cosa prevede la normativa.

Il limite dei 90 giorni: entro 12 settimane e 6 giorni dall’ultima mestruazione l’aborto è ammesso sulla base di una autonoma valutazione della donna, che lo richiede perché ritiene che la prosecuzione della gravidanza possa rappresentare un pericolo per la sua salute fisica o psichica. Dopo il novantesimo giorno l’aborto è ammesso solo nei casi in cui un medico rilevi e certifichi che la gravidanza costituisce un grave pericolo per la vita o la salute della donna.    

Il documento/certificato: sia prima sia dopo il novantesimo giorno, per accedere all’interruzione di gravidanza (Ivg) la donna deve rivolgersi a un medico (del consultorio o anche un medico di sua fiducia), che deve redigere un documento attestante la richiesta della donna. Il documento (certificato, se il medico attesta l’urgenza della procedura) è indispensabile per accedere all’Ivg. Nel caso in cui il medico non consideri urgente l’intervento, invita la donna a rispettare un periodo di “riflessione” di sette giorni, trascorsi i quali la donna può rivolgersi a un centro autorizzato per l’espletamento della procedura.

L’aborto terapeutico: secondo la legge 194 tutte le interruzioni volontarie della gravidanza sono “terapeutiche”, poiché l’aborto è ammesso solo nei casi in cui la gravidanza o il parto costituiscano un pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Tuttavia, comunemente viene definito “terapeutico” l’aborto praticato oltre il novantesimo giorno di gestazione (cioè nel secondo trimestre di gravidanza). Quest’ultimo è consentito quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, o anche in presenza di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna per patologie come tumori, cardiopatie gravi, malattie psichiche, tutte certificate dal medico.

Il limite massimo è di 22-24 settimane: anche se la legge 194 non definisce un limite di epoca gestazionale per l’aborto terapeutico, nel caso in cui il feto abbia raggiunto uno sviluppo che ne permette la sopravvivenza al di fuori dell’utero (cioè attorno alle 22-24 settimane), il medico attui tutti gli interventi per salvaguardarne la vita; pertanto, per scongiurare la nascita di bambini con gravissimi handicap, si tende a non procedere oltre le 22-24 settimane.

Sin dal suo varo la legge 194 è stata al centro di polemiche, e, sottolinea l’Associazione Luca Coscioni, “dalla mancata o non corretta applicazione della legge, che soprattutto in alcune aree del nostro paese, limita ancora fortemente l’accesso all’aborto”. L’associazione ha presentato alcune proposte di modifica delle parti della legge “che mostrano le più evidenti ed urgenti criticità”: eliminare il periodo di attesa obbligatorio che invita la donna a soprassedere per 7 giorni; introdurre il “rischio per la salute” della donna per le Ivg oltre il 90esimo giorno; eliminare l’obbligo del medico di “salvaguardare la vita del feto”.

Al suo posto si propone di inserire che “l’autorizzazione all’interruzione della gravidanza viene data da una commissione medica che valuta il singolo caso”. Per la Fnopo (Federazione Nazionale degli Ordini della Professione di Ostetrica), la legge 194 ha avuto anche effetti positivi, come la diminuzione degli aborti, passati dai 234mila del 1983 (anno record) ai 66.400 nel 2020. 

ANSA