I rapporti tra Italia e Stati uniti sono “ottimi” e “solidissimi”, e il governo continuerà a lavorare con l’amministrazione americana “indipendentemente” da chi sarà il nuovo presidente. Ma dietro le dichiarazioni di equidistanza ripetute in questi mesi non c’è solo “tattica” ma anche un filo di “preoccupazione”, ai piani alti dell’esecutivo, per l’esito del voto del 5 novembre.
“La situazione è complessa, stiamo alla finestra”, è il ragionamento che si fa nel partito di Giorgia Meloni. Perché se è “palese” che con i conservatori c’è maggiore affinità, sono alleati naturali, la premier è altrettanto consapevole che gli equilibri geopolitici, sia che a vincere sia Kamala Harris sia che a conquistare il ritorno alla Casa Bianca sia Donald Trump, possono subire uno scossone. Non necessariamente favorevole all’Italia, e all’Europa. Anzi.
Non sono tanto le eventuali ripercussioni interne a impensierire. Certo, Matteo Salvini non ha fatto mistero del suo sostegno per Trump, tornando anche a due giorni dalle elezioni americane a puntare su una vittoria del tycoon che avvicinerebbe “la pace sia in Ucraina sia in Medio Oriente”. Ma più che il rischio di smarcamenti e punzecchiature in casa, il timore è quello di un generale “disimpegno” di Washington sullo scacchiere internazionale, che potrebbe trovare l’Europa “impreparata”, si riflette tra i meloniani, convinti anche per questo che la partita della nuova Commissione europea si chiuderà “positivamente”.
Con una vittoria di Trump, come ha di fatto confermato il candidato repubblicano con quell’ “Europa ladra”, si complicherebbero i rapporti tra Usa e Vecchio continente. Ma la premier, dicono i suoi, potrebbe puntare a diventare suo interlocutore “privilegiato”: Meloni, è il ragionamento, è a capo di un governo “forte” con una maggioranza “stabile” e “altri tre anni” davanti. Un governo di centrodestra, conservatore, mentre Germania e Francia hanno guide uscite “appannate” dalle ultime tornate elettorali e la Gran Bretagna ha un leader socialista. In più la premier vanta buoni rapporti con Ursula von der Leyen, pur non avendo votato il suo bis alla Commissione. Potrebbe quindi fare da “ponte”, argomenta chi le è vicino, tra Ue e nuova amministrazione Usa, sulla falsariga del ruolo che la premier si è ritagliata a Bruxelles nelle mediazioni con Victor Orban.
Paradossalmente però, una vittoria di Trump con cui Meloni ha rapporti di vecchia data che ha evitato accuratamente di sbandierare in questi due anni di governo e di interlocuzioni con il democratico Joe Biden potrebbe rivelarsi “complicata” per Roma. In primis per la diversa postura sul dossier Ucraina, che Trump potrebbe “congelare”. Ma anche per il rischio dell’imposizione di nuovi dazi sui prodotti europei che potrebbero indebolire un’economia già alle prese con qualche difficoltà.
L’altro nodo è quello della Nato. Che gli Usa, chiunque sarà il nuovo presidente, possano sollecitare una maggiore partecipazione, in primis economica, dei paesi europei alla loro difesa non sarebbe una novità. Altro sarebbe una uscita dall’Alleanza atlantica, più volte ipotizzata da Trump in passato. L’Italia peraltro, pur avendo aumentato le spese, resta indietro rispetto a quel target del 2% del Pil che potrebbe essere oggetto del colloquio che Meloni avrà martedì con il nuovo segretario della Nato Mark Rutte.
La premier riceverà a Palazzo Chigi l’ex primo ministro olandese con cui aveva “consolidato un rapporto importante”, ricordano i suoi collaboratori. E potrebbe rimettere sul tavolo la questione del rappresentante speciale per i Paesi del fianco Sud: brucia ancora la nomina fatta da Jens Stoltenberg già in uscita dello spagnolo Javier Colomina. Rutte ora avrebbe la possibilità di fare una nuova nomina. Che Roma tornerà a rivendicare.
ANSA